Uno sguardo al passato offre sempre un ottimo spunto per pensare il futuro. Anche la mitologia può svolgere questa funzione. In Italia, tra i modelli organizzativi innovativi, un mito c’è: la fabbrica Olivetti. Un esempio unico al mondo di innovazione ed impegno economico, tecnico, culturale e sociale che ancora dopo più di cent’anni sostanzia l’orgoglio del Made in Italy. Breve lezione di economia civile ispirata all’eredità imprenditoriale e umanistica di Camillo e Adriano Olivetti.
Questa non è una banale macchina da scrivere
Se Magritte avesse dipinto la famosa Olivetti Lettera 22 scelta da Ernest Hemingway e Indro Montanelli, avrebbe potuto scriverne la didascalia con queste parole. Dietro al prodotto che nello scorso secolo ha rivoluzionato il mercato della macchina da scrivere favorendone la transizione in quello dei Personal Computers, emergono si le materie prime, la tecnologia e le linee di produzione che un approccio da una dimensione molto profonda: è il pensiero di un uomo, Camillo Olivetti (1868 – 1943), che ha saputo trasmettere al figlio Adriano un patrimonio industriale con una cultura e dei valori che gli hanno poi permesso di camminare da solo tracciando la propria strada. Un pensiero nutrito per entrambi – è vero- da un contesto sociale ed educativo favorevole, ma anche da una solida formazione tecnica e linguistica, da un reale impegno politico, da viaggi di ispirazione e soprattutto da una visione profondamente umanistica.
Laureato in ingegneria elettrotecnica al Regio Museo Industriale di Torino, che diventerà più tardi il Politecnico, Camillo Olivetti avrà come docente lo scopritore del campo magnetico rotante alla base dell’applicazione del motore elettrico: Galileo Ferraris. Un incontro determinante per Camillo che gli farà da interprete nel 1893 al congresso di elettrotecnica tenuto nella cornice dell’esposizione universale di Chicago. Gli Stati Uniti sono allora in piena rivoluzione industriale dopo gli anni della guerra di secessione. E Camillo decide prolungare il suo viaggio. Sarà la svolta nella sua vita. Attivo nel partito socialista italiano, Camillo rivolge uno sguardo ammirato agli albori dello sviluppo industriale e del progresso economico. Al tempo stesso sviluppa un pensiero critico sullo sfruttamento e sulla disuguaglianza sociale che vi osserva.
Così, nel 1894 torna a casa con la convinzione che il capitalismo industriale non è antitetico al progresso sociale. Quello stesso anno, elabora il suo concetto d’impresa e erige a Ivrea lo stabilimento di mattoni rossi destinato alla produzione di apparecchiature elettriche di misurazione: nasce la CGS (centimetro, grammo, secondo). Qualche anno dopo, decide di farne evolvere l’attività con l’idea di portare una macchina da scrivere su ogni scrivania evolvendo il prodotto Remington che “spara le lettere sulla carta come missili”. Ci mette mani e ingegno. Progetta il “cinematico” che costituirà il cuore della sua macchina da scrivere. Nel 1908 fonda la Olivetti. Durante i tre primi anni programma la partecipazione all’Expo di Torino del 1911 dove decide di occupare addirittura due padiglioni. La Olivetti riscontra un grande successo: è la prima azienda a produrre in catena una macchina scrivere a scrittura non visibile! Non solo. È la prima azienda a “produrre stili di vita” vale a dire Camillo intuisce con decenni di anticipo il valore degli asset intangibili. La Olivetti ottiene un grande riconoscimento non solo quale progetto economico ma anche quale laboratorio sociale, esattamente come era nato fin dall’inizio nella testa e nel cuore di Camillo.
Per Adriano oltre l’azienda, la comunità
Nel frattempo, il figlio Adriano nato nel 1901 viene educato in casa insieme ai suoi due fratelli dalla mamma poliglotta fino alla quarta elementare. Studierà poi chimica al Politecnico. Anche lui si impegnerà in politica. Nel 1924, il padre lo invia negli Stati Uniti insieme al suo braccio destro. Adriano ha 23 anni e intuisce che oltre oceano tutto risponde alla legge del denaro. Al suo ritorno, entra nella sezione trapani della fabbrica dei mattoni rossi per imparare cosa significa lavorare. Solo alla fine degli anni 30 il padre gli lascerà le redini dell’azienda, dopo aver ottenuto la promessa che non avrebbe mai licenziato un collaboratore.
Dotato di un carattere più timido e meno tecnico del padre, Adriano ne prosegue comunque l’opera con lo sviluppo di prodotti pensati su misura per l’utilizzatore. Fa evolvere il design e introduce il colore che porterà la Lettera 22 al Museum Of Modern Art di New York, il primo prodotto industriale presente in un museo. Declina anche certe testiere con l’alfabeto arabo e cirillico.
Ma il suo impegno primario è nella conduzione aziendale. Il suo principio fondante è che lo scopo dell’attività non può essere ridotto al solo profitto. Per lui, la fabbrica esiste per creare e diffondere una sempre migliore qualità della vita al suo interno come nel territorio circostante. “La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole, ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare”[1]. Siamo ben oltre alla responsabilità sociale d’impresa che in tempi più recenti ha fondato il modello delle 3 P (Profit, Planet, People) e anche al recente principio delle 5 P (Profit, Planet, People, Peace, Partnership).
Per conseguenza, i risultati finanziari si devono tradurre in progresso sociale al fine di evitare i rischi dello sfruttamento sociale che aveva osservato in nord America. Gran parte dei profitti deve ritornare alla comunità perché sono strumenti al servizio di un’espressione spirituale. Questo porterà nel 1947 alla nascita del progetto sociale che ispirerà il “Movimento Comunità”.
La fabbrica: un luogo virtuoso
Il concetto di “persona” in opposizione al concetto di “individuo” è lo snodo centrale del progetto imprenditoriale di Adriano. Lo era già per Camillo, che ogni mattina salutava i dipendenti e condivideva con loro l’andamento dell’attività. Quando esplose la prima guerra mondiale, Camillo fece fatica a provvedere ai salari a causa di rapporti difficili con le banche. Propose allora di dimezzare il lavoro per dimezzare anche le buste paga, ma i dipendenti scelsero di lavorare a tempo pieno ugualmente: essendo in gran parte di estrazione contadina avevano comunque di che mangiare… In questa maniera, essi finanziarono l’azienda che diventò in qualche modo anche la loro. Un altro episodio merita di essere ricordato. Si dice che al momento della seconda guerra mondiale il magazzino contasse circa 5.000 esemplari di macchine da scrivere. La famiglia di ogni dipendente si fece carico di nasconderne una durante tutto il tempo del conflitto e, quando l’attività aprì di nuovo, non ne mancava una! Una dimostrazione che un fine condiviso porta benefici all’organizzazione intera.
Dal contenuto dei colloqui di lavoro che vertevano soprattutto su cosa ai candidati piaceva fare o leggere, alla quotidianità una volta passato il portone della fabbrica, tutto era pensato per rendere le persone serene e farle crescere. Durante la pausa pranzo, che poteva durare fino a due ore, dopo aver mangiato nella mensa di alto livello aperta anche alla sera, tutti potevano liberamente rigenerarsi nel parco che circonda la fabbrica dove c’erano campi da tennis, da bocce, il solarium e l’emeroteca. A volte, la sera la fabbrica si apriva ad intellettuali, filosofi o artisti. Lo stesso Pier Paolo Pasolini prese parte a numerose iniziative. I dipendenti potevano anche accedere alla biblioteca, che contava fino a 50.000 volumi che spaziavano dalla tecnica alla sociologia. Un progetto culturale filosofico che tra l’altro ha portato la città di Ivrea nel 2022 ad essere Capitale del libro. «Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre arme segrete: i libri, i corsi, le opere dell’ingegno e dell’arte».
Dopo la cura della mente, c’era anche quella del corpo. Un medico a disposizione in prossimità della fabbrica, e dagli anni ‘50 il beneficio degli ambulatori medici di fronte alla stessa. A qualche passo, l’asilo d’infanzia per i figli dei dipendenti e per le vacanze il servizio colonie che accoglieva i bambini in strutture montane e marine. Grazie a questi servizi, le donne potevano fare carriera godendo di un importante aiuto nell’accudimento e nella crescita dei i bambini. Chi aveva voglia di proseguire gli studi non solo otteneva l’acquisto dei testi, ma anche giorni di ferie supplementari pagati. E per non sradicare le persone dalla loro terra ed evitare l’inurbamento, l’azienda metteva a disposizione un servizio di navette per chi proveniva dalle zone limitrofe alla fabbrica.
I genitori meno preoccupati e meno assenti potevano pienamente dedicarsi alla produzione…
E non parliamo di una piccola azienda. La sola fabbrica di Ivrea contò fino a 6.000 collaboratori e l’intera azienda presente in 177 paesi, alla meta degli anni ‘60 ne contò fino a 34.000, con 18 stabilimenti dei quali 9 all’estero, sempre con l’impegno di radicare la fabbrica sul territorio di riferimento.
Ecco quello che significava comunità per Adriano Olivetti: una cellula in cui cercare l’equilibrio tra valori materiali e spirituali: giustizia, verità, amore, e bellezza.
Una fabbrica aperta sul territorio
Adriano concepì il luogo di lavoro anche come luogo di armonia dove lavorare e vivere nel bello. Così, la fabbrica fu pensata per permettere di essere in contatto con la natura, senza confini netti tra interno ed esterno. Gli edifici, ancora visitabili al giorno di oggi, si aprono sulle montagne e sulle colline circonstanti. Gli edifici verrebbero realizzati secondo criteri che oggi chiameremmo di ecosostenibilità. Gli incarichi conferiti a giovani architetti lasciava ampia libertà ai professionisti. La realizzazione dei loro progetti veniva affidata agli artigiani locali, per coinvolgere il territorio: ne è prova la bellezza nell’asilo con il muro di pietra che richiama la campagna, nella biblioteca lo stucco veneziano sui muri e la pregiatissima scala lignea. E sempre ovunque il richiamo alla forma esagonale che richiama l’alveare delle api a ricordare il dialogo continuo con la natura.
Per non parlare delle case e degli altri edifici nella città di Ivrea, al di fuori della fabbrica. Adriano investì nel territorio per dare un assetto urbano alla città che il patrimonio degli edifici olivettiani è riconosciuto come patrimonio dell’UNESCO.
Adriano Olivetti muore nel 1960. Un anno dopo il suo braccio destro, Mario Tchou che lavorava al primo Personal Computer. Nei primi anni 60, per affrontare problemi di natura finanziaria entrano per la prima volta nel capitale investitori lontani dallo spirito e dalla cultura olivettiana (Fiat, Mediobanca, …che abbandonarono la strada dell’elettronica e che lasciarono si sviluppi oltre oceano…
Anche se l’esperimento ha avuto termine, l’esperienza condotta dagli Olivetti rimane la dimostrazione che realizzarsi con e nel lavoro si può. Un esempio a livello mondiale dell’applicazione dei principi di economia civile che fa convivere esigenze produttive, benessere materiale e pienezza umana, e dove industria, territorio e persone sono in simbiosi. Una nuova cultura di fare impresa era nata. Ed è ancora possibile.
Saperne di più:
– Museo Tecnologicamente Ivrea
– Adriano Olivetti Leadership Institute
– Ivrea, città industriale del XX secolo (Unesco)
– Adriano Olivetti. La biografia di V. Occhetto, Edizioni di Comunità, 2013
– Voci Olivetti Adriano di A.Peretti in Dizionario di Economia Civile, a cura di L. Bruni, S.Zamagni, 2009, Città Nuova
[1] Olivetti 2001, p. 99